Elena Fazi, Vicepresidente nazionale vicaria UCIIM
Ogni giorno la cronaca riporta epoisodi di violenza in vari ambienti, anche nella scuola.
Una professoressa ferita da uno studente, studenti sparano in aula a prof. con pistola ad aria compressa, studente di 16 anni entra in classe e accoltella la prof.
Così come un prof. aggredisce l’alunno e lo scaraventa tra il banco e il muro, per una lite a scuola accoltellato studente di 17 anni, aggrediti due studenti…
E ancora le aggressioni dei Docenti, dei Dirigenti da parte delle famiglie.
I dati sono allarmanti. Non possiamo solo addolorarci e rattristarci: dobbiamo fare qualcosa.
La violenza è un problema serio nella nostra società. Per combatterlo, dobbiamo innanzitutto capire da dove proviene. La violenza non nasce dal nulla, ma è sempre il risultato di un conflitto e di un’incomprensione.
Le persone violente spesso si comportano in quel modo perché sono state loro stesse vittime di violenza o perché sono sotto stress. In alcuni casi, la violenza è anche un’espressione di frustrazione o di rabbia. La maggior parte delle persone che diventano violente non imparano a gestire i conflitti. Al contrario, imparano a vedere la violenza come una soluzione ai loro problemi. Questo può portarli a diventare violenti ancora e ancora, anche quando non è necessario. Poiché non sono un’esperta di questo tema, ma desidero impegnarmi nel combattere la violenza riporto qui di seguito, con alcuni adattamenti, l’analisi di un importante sociologo Prof. Alberto Pellegrino, Università Politecnica Marche (1).
Secondo la sociologia…
…la violenza è un comportamento volontario e aggressivo contro determinate persone con l’intenzione di ferire o uccidere, arrecare un danno o sottomettere al proprio dominio la volontà di un altro individuo. Questo modo di agire da parte di un soggetto si può classificare come violenza diretta se è esercitata in modo esplicito su una persona o un gruppo sociale; come violenza strutturale se colpisce gli individui in modo indiretto per esercitare delle pressioni psicologiche, per avere un utile economico, per eliminare degli avversari politici o dei concorrenti ritenuti pericolosi; come violenza culturale se assume forme simboliche che esaltano e promuovono la violenza elevandola a un valore sociale interiorizzato. Si parla di violenza politica se è esercitata da una classe sociale dominante attraverso il potere economico e politico, oppure contro un altro popolo, una minoranza etnica o religiosa. Questo tipo di violenza diviene particolarmente grave, quando una minoranza s’impone sulla maggioranza della popolazione per impadronirsi dello Stato e sottomette i cittadini, togliendo loro la libertà, i diritti civili e politici.

Secondo un’altra classificazione si può fare una distinzione tra violenza fisica e violenza psicologica: nel primo caso si compie un’azione volontaria mediante l’abuso della forza da parte di una o più persone per provocare dolore ad altri individui fino ad arrivare all’omicidio o alla strage; nel secondo caso non si provoca un danno fisico, ma si vuole indurre una persona a tenere determinati comportamenti attraverso diverse forme di condizionamento come pressioni psicologiche, minacce, ricatti, intimidazioni, comportamenti aggressivi all’interno della famiglia, nella scuola, nelle istituzioni sociali e religiose, nei luoghi di lavoro sempre con il fine di piegare un soggetto alla propria volontà.
La violenza psicologica può colpire in tutte le situazioni della vita e in tutti gli ambienti sociali, nei quali un essere umano si trova di fronte a un suo simile e può arrivare fino all’estremo condizionamento del plagio attraverso forme di coercizione che possono esercitarsi in modo subdolo o palese anche per lungo tempo sempre per costringere una persona a tenere dei comportamenti che limitano la sua libertà di pensiero e di azione.
Nella vita sociale e politica delle attuali società, inoltre, si assiste a forme di competizione che favoriscono l’aggressività fino ad arrivare a lotte senza esclusioni di colpi, producendo contraccolpi negativi all’interno dell’istituzione familiare e nei processi di socializzazione delle nuove generazioni, rendendo difficile una «libera» formazione della personalità. La rincorsa al successo e all’affermazione dei singoli, anche a costo di danneggiare altre persone, finisce per degradare le aspirazioni individuali e per provocare una serie di frustrazioni, che a loro volta generano individui «unilaterali», carichi di tensioni aggressive di rivalsa, che ammettono come reale e valido solo il proprio pensiero.
Come cercare di evitare la violenza
Non siamo condannati a vivere in una società violenta, ma perché questo non accada è indispensabile riscoprire una legge morale capace di ricordare all’uomo che la violenza è una possibilità ma non un obbligo, che ogni un comportamento violento non è la prova di un diritto biologico all’aggressività, mentre è necessario recuperare quei codici di comportamento che esaltino le regole di una convivenza civile, che escludano o almeno circoscrivano le azioni violente degli individui, passando attraverso una rifondazione della personalità individuale per mezzo di un’educazione permanente che consenta agli individui e ai gruppi sociali di trovare in se stessi le motivazioni e gli strumenti per vincere o ridurre sensibilmente gli effetti della violenza.

Lo psicanalista Massimo Recalcati (2) sostiene da tempo che la spinta alla violenza, all’odio, alla sopraffazione e alla distruzione dell’altro non è una patologia, ma è come ombra oscura presente nel profondo del nostro io che bisogna scoprire e con cui fare i conti: «Il crimine non è la regressione dell’uomo all’animale, ma esprime una tendenza propriamente umana» e l’umanizzazione non consiste nel cancellare la violenza, ma nel saper rinunciare a essa in nome del riconoscimento dell’Altro come prossimo; essa ci spinge a dire «Io non sono tutto», ma vivo in un mondo, dove ci sono anche gli altri e quindi accetto di appartenere a una Comunità umana, reprimendo quella che Freud chiamava una «frustrazione narcisistica».
Il filosofo Nicola Abbagnano a questo proposito dice: «Appena due persone s’incontrano, sia pure per giocare una semplice partita a carte, riconoscono o stabiliscono delle regole che, se sono disconosciute o deliberatamente infrante, rendono impossibile continuare l’incontro. Queste regole sono, in tutti i gruppi umani conosciuti, imperfette e spesso inutilmente oppressive; possono essere migliorate, corrette e sostituite da altre, ma non abolite in nome dell’autonomia assoluta del cittadino».
Il senso dell’educazione e della formazione
Molto spesso nei bambini e negli adolescenti la violenza è generata da un senso personale di insicurezza, inferiorità ed emarginazione ai quali si reagisce «mostrando i muscoli» fuor di luogo e fuor di contesto. La violenza si presenta come una forma di autoaffermazione della propria esistenza e del proprio ego. Ma noi educatori non possiamo non cercare di ascoltare questa implicita e, forse inconsapevole, richiesta di aiuto; noi adulti ormai coscienti del nostro ruolo nella famiglia e nella società abbiamo il dovere di impegnarci in questo rifiuto della violenza come forma di rapporto. Attraverso i processi di apprendimento e gli strumenti forniti dalle varie istituzioni culturali è necessario far percepire la violenza in tutta la negatività, fissando alcuni punti fermi: ritrovare il valore della memoria, riscoprire i bisogni «veri» dell’uomo, sconfiggere il disinteresse per il pericolo e quindi per la vita stessa, rifiutare la morbosa e contagiosa curiosità per le tante morti-spettacolo diffuse dai mass media; ricordarsi dei doveri come l’altra faccia dei diritti…

La prima istituzione su cui bisogna intervenire è la famiglia, nella quale spesso non solo sono presenti forme di violenza fisica e psicologica verso i figli e il coniuge femminile e che spesso non emerge per paure e ricatti, il sopravvivere di malintese tradizioni culturali e antropologiche.
Ma nella famiglia ci sono anche altre forme di violenza non meno dannose: l’assenza, la disattenzione e il disinteresse. Non entro nel merito di questi atteggiamenti, che spesso sono involontari e dovuti a superficialità e/o al ritmo frenetico delle giornate di lavoro e di vita. Mi preme tuttavia sottolineare che queste forme di violenza mascherata sono paradossalmente più pericolose e dannose di quella evidente perché lavorano sottilmente e producono grandi incertezze di ruoli e carenza di presenze.
La scuola, poi, rimane l’istituzione pubblica più diffusa sul territorio, dove è possibile impartire un’efficace educazione contro la violenza, capace di rappresentare un reattivo alle pulsioni esterne che provengono dalla società, in grado di fronteggiare con opportuni interventi i preoccupanti fenomeni di aggressività, di bullismo e di cyberbullismo messi in atto contro compagni e professori. Non cito i tanti episodi spero bene estremi riportati nelle cronache dei giornali e dei telegiornali, conosciuti da tutti, ma invito a riflettere sull’importanza dell’esempio e dell’autorevolezza, dell’ascolto quotidiano, del rispetto reciproco e della fermezza nel richiedere il rispetto delle regole condivise.

È fondamentale intervenire sul gruppo dei pari, anche nei social, che ha un’enorme importanza nella formazione della personalità giovanile, perché al suo interno i giovani passano molta parte del loro tempo libero e fanno di tutto per essere accettati; al suo interno si gioca buona parte del futuro per molti giovani, perché esso può essere un forte centro di aggregazione e di socializzazione positiva, ma può anche trasformarsi in un’opportunità di violenza spesso immotivata (microcriminalità organizzata, aggressioni di gruppo, stupri di gruppo, violenze di ultras sportivi).
Il nostro contributo
La Presidenza UCIIM, consapevole di quanto sopra descritto, ha istituito un tavolo «scuola- famiglia» con alcune delle associazioni del FONAGS, Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola, che ha sede presso la Direzione generale per studente, l’inclusione e l’orientamento scolastico e possiede un suo regolamento interno. È un organo di rappresentanza che garantisce la consultazione delle famiglie sulle problematiche scolastiche istituito col D.M.14 del 18/2/2002. Il Ministero dell’istruzione e le famiglie sono infatti legati dalla corresponsabilità educativa delle giovani generazioni.
Inoltre, è stato creato un tavolo «scuola/giovani» con rappresentanti del Forum Nazionale delle Associazioni Studentesche, istituito dal Ministero con Decreto n.79/2002; il Forum ha sede presso il Dipartimento per i servizi nel territorio-Direzione generale per lo status dello studente, per le politiche giovanili e per le attività motorie.
Scopo principale di questi Tavoli di incontro e di dialogo è ragionare insieme soprattutto sul rinnovamento degli organi collegiali, Decreto Legislativo 16 aprile 1994, n. 297, anche all’interno del D.P.R 275/1999 che istituisce l’autonomia scolastica.
Entrambi i tavoli sono guidati dalla sottoscritta, insieme alla D.T. presidente regionale Uciim Lazio Caterina Spezzano, con l’obiettivo di costituire e promuovere Comunità di apprendimento e Comunità educanti nel territorio, che oltre a rendere più formativo il percorso di ciascun alunno agevolerebbe anche il cammino dell’orientamento e del rapporto tra scuola ed esperienze lavorative.
Sarebbe auspicabile che i nostri soci, che sicuramente nei propri Consigli di Circolo e di Istituto lavorano fianco a fianco con genitori e giovani, riportassero ai tavoli le esperienze e le riflessioni, maturate in queste occasioni, per rendere sempre più comunitario, coinvolgente e condiviso il lavoro della nostra Unione. Il comune intento è costruire comunità che educhino alla nonviolenza, secondo lo stile dell’Unione che si è sempre adoperata, fin dai tempi di Gesualdo Nosengo, per la pace e la vera democrazia.