“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 6 Fagocita qualunque livello stilistico, ma in una serie di contenitori (le ore del giorno, i libri e i personaggi dell’Odissea…) che suddividono la materia senza imbrigliarla, il capolavoro della narrativa modernista, l’ Ulysses (1922) dell’irlandese James Joyce. Il nuovo Ulisse, il piccolo borghese di origine ebraica ma convertito al cattolicesimo Leopold Bloom, compie azioni che hanno una portata modestissima, almeno nell’economia di una giornata qualunque a Dublino, il 16 giugno 1904, e risultano invece cariche di implicazioni simboliche: non mancano le visioni o piuttosto allucinazioni, che dovrebbero portare ad epifanie – sempre eluse o negate –, folgoranti apparizioni di quella che Dante avrebbe chiamato la “gloria divina”. Purtroppo, all’inizio del XX secolo, della molteplicità della creazione restano solo le bassezze corporee: evento clou è semmai il disperdersi progressivo del super-io morale e razionale nel cuore della notte, che determina anche la degradazione della figura femminile, non più fedele come Penelope né tanto meno ‘assoluta’ come Beatrice. La nuova Donna eterna è Marion-Molly, moglie adultera di Leopold, e il racconto finisce con l’identificarsi con il suo stream of consciousness, il flusso di parole e pensieri che agitano il pre-conscio. La visione di Dio è sostituita dal ritorno all’indistinto, o piuttosto dall’immersione nella chiacchiera cui si riduce ogni esistenza priva di scopo. Questo processo sarà ancora più chiaro nell’altro testo fondamentale di Joyce, il davvero plurilinguistico Finnegans Wake (1939), in cui il principio ‘comico’ dell’inclusione del reale in tutti i suoi aspetti (compresi quelli inconsci) nelle opere letterarie viene portato alle sue estreme conseguenze: l’invenzione procede per associazioni e anagrammi sistematicamente e non solo in singoli punti del testo. E il capostipite di questa ennesima sperimentazione è sempre il divine comic Denti Alligator (come si legge in FW, 440, 6). Solo che viene a perdersi la certezza della storia, oltre a quella della salvezza: tutto si mescola e ritorna incessantemente, perciò non esistono più i destini personali. Invece, in un altro grande scrittore modernista, lo statunitense Thomas S. Eliot, e in particolare nel suo capolavoro The Waste Land (1922; il titolo viene tradotto ‘La terra desolata’ o ‘devastata’) si riconosce la forza della coesione trascendente che Dante aveva saputo imprimere al suo poema. I frammenti di vita, sparsi come quelli sopravvissuti alla dura prova della Grande guerra, si compongono nel capolavoro eliotiano come tessere di un mosaico incompleto, come citazioni-allusioni a un mondo che non esiste più, né in quanto passato remoto né in quanto presente storico. La vita degli uomini è collocabile in una città irreale ( Unreal city), una Londra-megalopoli infernale, in cui l’io vede moltitudini di morti e, traducendo Inf. 3, vv. 55-57, afferma che «I had not thought death had undone so many» ( WL 1, 60-63, cioè “ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta”): la certezza del destino è adesso quella della distruzione reale, mentre irreale è la vita quotidiana degli abitanti di una qualunque città occidentale. Unicamente la riscoperta di una dimensione mitica e addirittura pan-religiosa condurrà il lettore dall’Inferno di The Burial of the Dead alla possibile pace assoluta sintetizzata nel «Shantih shantih shantih» con cui si chiude l’intero poemetto della Waste Land: un paradiso evocato sulla base dell’antropologia e delle aspirazioni etiche delle più grandi religioni di tutto il mondo, anziché attraverso una teologia capace di diventare chiave di lettura del «gran mar de l’essere». Occorrerebbe ancora soffermarsi su come Dante venne riadattato al contesto cubista e futurista della Rivoluzione sovietica, per esempio da Osip Mandel’štam, che lavorò a un suo Discorso (o anche Conversazione) su Dante agli inizi degli anni Trenta, rileggendo l’intero poema all’insegna dell’energia, dell’eccesso, dell’arditezza delle metafore, della multiformità, purtroppo proprio quando l’impeto del 1917 stava ormai bloccandosi: e Mandel’štam, che si riteneva inquieto e reietto proprio come Dante, usò a sua volta l’arma della satira contro Stalin, venendo poi mandato al confino. Non importano ovviamente i notevoli errori interpretativi dovuti a una conoscenza approssimativa del volgare italiano antico, perché appunto anche questo dimostra che la Divina commedia poteva raggiungere ogni contesto: in Russia fu amata, magari con prospettive diverse, pure da tanti altri artisti, da Vladimir Majakovskij ad Anna Achmatova.
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