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“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 2

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 3 SOMMARIO Saluto del card. Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze............................................... 4 La fortuna di Dante tra Novecento e contemporaneità, Alberto Casadei ..................... 5 Dalla selva del peccato alla visione di Cristo La presenza di Maria nella Divina Commedia, P. Giuseppe Oddone ...................................................................................... 13 Dante nel magistero dei Papi del nostro tempo*, Simona Brambilla .......................... 45 Dante, maestro di vita spirituale nel cammino verso Cristo, volto e cuore del mistero trinitario. Le virtù teologali della fede, speranza e carità, P. Giuseppe Oddone ........................................................................................................... 54 UCIIM Toscana – UCIIM Nazionale “… e quindi uscimmo a riveder le stelle” Giornata di studi nel VII centenario della morte di Dante Alighieri Firenze, 8 maggio 2021, Alfonsina Ramagini ................................................................................................... 65

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 4 Saluto del card. Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze Mi rallegro con l’UCIIMToscana e con l’UCIIMnazionale per aver voluto offrire un incontro di riflessione su Dante Alighieri e l’attualità della sua opera. Il mio saluto si affida alle parole di Papa Francesco nella lettera apostolica Candor lucis aeternae: «Dante, riflettendo profondamente sulla sua personale situazione di esilio, di incertezza radicale, di fragilità, di mobilità continua, la trasforma, sublimandola, in un paradigma della condizione umana, la quale si presenta come un cammino, interiore prima che esteriore, che mai si arresta finché non giunge alla meta. Ci imbattiamo, così, in due temi fondamentali di tutta l’opera dantesca: il punto di partenza di ogni itinerario esistenziale, il desiderio, insito nell’animo umano, e il punto di arrivo, la felicità, data dalla visione dell’Amore che è Dio» ( Candor lucis aeternae, 2). Su ambedue questi orizzonti Dante ha molto da dire all’uomo d’oggi, il cui desiderio non è mai spento ma troppe volte si trova confuso da una cultura massificante che mina alle radici la singolarità della persona e l’autenticità delle sue relazioni. E lo stesso vale per la purificazione della meta a cui tendere, la verità sulla felicità che ci fa pienamente umani, dove ci si scontra con le tendenze che vorrebbero sottrarre all’uomo la sua tensione alla trascendenza, confondendo il bene assoluto con qualche bene parziale e provvisorio, che maggiormente attrae perché apparentemente più vicino, dimenticando che nulla è più intimo a noi stessi se non quel Bene assoluto che è Dio. Questa attualità di Dante va riproposta con forza, a cominciare da quel luogo centrale della formazione umana che è la scuola. Torno ad affidarmi alle parole di Papa Francesco: «Dante – proviamo a farci interpreti della sua voce – non ci chiede, oggi, di essere semplicemente letto, commentato, studiato, analizzato. Ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità, la via retta per vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l’orientamento e la dignità. Il viaggio di Dante e la sua visione della vita oltre la morte non sono semplicemente oggetto di una narrazione, non costituiscono soltanto un evento personale, seppur eccezionale. Se Dante racconta tutto questo – e lo fa in modo mirabile – usando la lingua del popolo, quella che tutti potevano comprendere, elevandola a lingua universale, è perché ha un messaggio importante da trasmetterci, una parola che vuole toccare il nostro cuore e la nostra mente, destinata a trasformarci e cambiarci già ora, in questa vita. Il suo è un messaggio che può e deve renderci pienamente consapevoli di ciò che siamo e di ciò che viviamo giorno per giorno nella tensione interiore e continua verso la felicità, verso la pienezza dell’esistenza, verso la patria ultima dove saremo in piena comunione con Dio, Amore infinito ed eterno» ( Candor lucis aeternae, 9). Il Papa, per indicarci il modo con cui avvicinarci a Dante e alla sua opera, utilizza un linguaggio che è proprio dell’esperienza educativa della scuola: “leggere, commentare, studiare, analizzare”. Non si entra nella profondità del messaggio dantesco se non attraverso l’utilizzo di queste procedure del sapere che sono ciò che la scuola deve fornire ai ragazzi e ai giovani e di cui fa fare esperienza nell’iter formativo. Di qui un appello alla serietà dei cammini scolastici e alla responsabilità dei docenti. Ma il Papa poi continua spostando l’attenzione dal metodo al contenuto, e fa emergere che esso è un appello a un’esperienza che si traduca in vita buona. Di nuovo è qui interpellata la scuola che non può ridursi a una funzione di trasmissione di saperi e di abilitazioni al saper fare, in una prospettiva funzionale al mercato del lavoro. Ciò che è in gioco nella scuola è la possibilità offerta alle nuove generazioni di poter cogliere il fascino di una vita buona, una vocazione etica, un saper essere. E qui, per concludere, faccio mie le parole della petizione rivolta al Comune con cui il popolo fiorentino nel 1373 chiese la prima lettura pubblica della Commedia, affidata a Giovanni Boccaccio: «essere istruiti sul libro di Dante, dal quale anche chi non ha studiato può essere educato a fuggire i vizi e ad acquistare le virtù».

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 5 La fortuna di Dante tra Novecento e contemporaneità Alberto Casadei 1. Il poema di Dante suscitò quasi subito reazioni piuttosto divaricate. Se consideriamo che le prime due cantiche erano già ben diffuse già intorno al 1315, i vari aneddoti riportati per esempio dal novelliere Franco Sacchetti (ca. 1330-1400) o da Boccaccio testimonierebbero un immediato successo popolare, e insieme un’immediata deformazione del testo, tanto da suscitare le ire del poeta contro fabbri o asinai che maltrattavano la sua composizione. Viceversa proprio l’uso del volgare, sia pure nobilitato dalla qualità stilistica, viene considerato negativamente dai lettori di cultura pre-umanistica, sostenitori dell’uso esclusivo del latino nelle opere letterarie più importanti. Già pochi anni dopo la morte del poeta l’orientamento generale dei letterati italiani era quello di esaltare le nuove scritture latine, appannaggio dei colti e raffinati pre-umanisti, a scapito di quelle volgari, considerate adatte a opere di minor importanza oppure più intime. Petrarca sceglierà sì il volgare per il suo Canzoniere, però selezionando sia il lessico, sia gli argomenti adatti per una poesia alta, che riprende la grande tradizione lirica provenzale, stilnovista e propriamente dantesca, ma coniugandola con una componente intima, derivata da un rapporto stretto con Sant’Agostino e le sue Confessioni , nonché con modelli lirici antichi (come Orazio o Catullo) interamente o quasi sconosciuti a Dante. Bisognerà attendere la fine del Sette e poi l’Ottocento per assistere a una rinascita dell’interesse per questo autore. Per quanto ci interessa nel presente contributo, notiamo innanzitutto che, a partire dall’inizio del Novecento, Dante è stato riletto nei suoi fondamenti linguistico-stilistici e culturali senza far riferimento agli ideali patriottico-civili che raggiunsero la loro massima diffusione intorno al 1865 (e adesso da rileggere ‘senza retorica’). Se ancora in occasione dell’anniversario del 1921, dopo una grande e terribile guerra mondiale, in Italia dominano le celebrazioni di tipo nazionalistico, solo in parte stemperate dal risalto attribuito all’attività filologica per le edizioni critiche delle opere dantesche, coordinate dal grande studioso Michele Barbi, la novità è rappresentata dalla critica che seguiva il magistero di Benedetto Croce, che per l’appunto pubblicò nel ’21 il suo celebre e poi contestato saggio su La poesia di Dante, nel quale si proponeva di superare alcune contraddizioni emerse nelle letture di critici idealistico-romantici come Francesco De Sanctis (peraltro autore di alcuni memorabili saggi danteschi), per dare spazio alla liricità del poeta, separando gli aspetti della struttura morale e teologica da quelli dell’autentica intuizione ed espressione di un’immagine esteticamente valida. Il metodo crociano di divisione tra poesia e non poesia purtroppo era del tutto inadeguato a comprendere la complessità del poema, ma costringeva comunque a riflettere sull’effettiva valenza del testo a prescindere dalle risonanze ideologiche o dai meri contenuti. Benché i modi fossero diversi, la direzione era la stessa della nuova fase interpretativa che avrebbe condotto a una rinnovata attenzione agli aspetti stilistici dell’opera dantesca. Alla cosiddetta ‘funzione Dante’ vengono assegnate, nella prima metà del XX secolo, molte componenti diverse, per esempio quella di essere alla radice dell’ispirazione che spingeva i nuovi artisti ad accumulare qualunque materiale della realtà, ricomponendolo e riadattandolo a un nuovo contesto (un po’ come fece Marcel Duchamp con i suoi ready-made). Da questo punto di vista, fra i discepoli ideali di Dante si conta il poeta statunitense Ezra Pound, che nei suoi Cantos (1917-1962) provò a far diventare materia poetica persino i conti economici, le lingue antiche anche non europee (come il cinese), la storia mondiale e così via. Ma l’Ordine gli mancò completamente, e non solo per le traversie biografiche, bensì soprattutto perché era in sé impossibile far fronte all’inclusività onnicomprensiva.

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 6 Fagocita qualunque livello stilistico, ma in una serie di contenitori (le ore del giorno, i libri e i personaggi dell’Odissea…) che suddividono la materia senza imbrigliarla, il capolavoro della narrativa modernista, l’ Ulysses (1922) dell’irlandese James Joyce. Il nuovo Ulisse, il piccolo borghese di origine ebraica ma convertito al cattolicesimo Leopold Bloom, compie azioni che hanno una portata modestissima, almeno nell’economia di una giornata qualunque a Dublino, il 16 giugno 1904, e risultano invece cariche di implicazioni simboliche: non mancano le visioni o piuttosto allucinazioni, che dovrebbero portare ad epifanie – sempre eluse o negate –, folgoranti apparizioni di quella che Dante avrebbe chiamato la “gloria divina”. Purtroppo, all’inizio del XX secolo, della molteplicità della creazione restano solo le bassezze corporee: evento clou è semmai il disperdersi progressivo del super-io morale e razionale nel cuore della notte, che determina anche la degradazione della figura femminile, non più fedele come Penelope né tanto meno ‘assoluta’ come Beatrice. La nuova Donna eterna è Marion-Molly, moglie adultera di Leopold, e il racconto finisce con l’identificarsi con il suo stream of consciousness, il flusso di parole e pensieri che agitano il pre-conscio. La visione di Dio è sostituita dal ritorno all’indistinto, o piuttosto dall’immersione nella chiacchiera cui si riduce ogni esistenza priva di scopo. Questo processo sarà ancora più chiaro nell’altro testo fondamentale di Joyce, il davvero plurilinguistico Finnegans Wake (1939), in cui il principio ‘comico’ dell’inclusione del reale in tutti i suoi aspetti (compresi quelli inconsci) nelle opere letterarie viene portato alle sue estreme conseguenze: l’invenzione procede per associazioni e anagrammi sistematicamente e non solo in singoli punti del testo. E il capostipite di questa ennesima sperimentazione è sempre il divine comic Denti Alligator (come si legge in FW, 440, 6). Solo che viene a perdersi la certezza della storia, oltre a quella della salvezza: tutto si mescola e ritorna incessantemente, perciò non esistono più i destini personali. Invece, in un altro grande scrittore modernista, lo statunitense Thomas S. Eliot, e in particolare nel suo capolavoro The Waste Land (1922; il titolo viene tradotto ‘La terra desolata’ o ‘devastata’) si riconosce la forza della coesione trascendente che Dante aveva saputo imprimere al suo poema. I frammenti di vita, sparsi come quelli sopravvissuti alla dura prova della Grande guerra, si compongono nel capolavoro eliotiano come tessere di un mosaico incompleto, come citazioni-allusioni a un mondo che non esiste più, né in quanto passato remoto né in quanto presente storico. La vita degli uomini è collocabile in una città irreale ( Unreal city), una Londra-megalopoli infernale, in cui l’io vede moltitudini di morti e, traducendo Inf. 3, vv. 55-57, afferma che «I had not thought death had undone so many» ( WL 1, 60-63, cioè “ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta”): la certezza del destino è adesso quella della distruzione reale, mentre irreale è la vita quotidiana degli abitanti di una qualunque città occidentale. Unicamente la riscoperta di una dimensione mitica e addirittura pan-religiosa condurrà il lettore dall’Inferno di The Burial of the Dead alla possibile pace assoluta sintetizzata nel «Shantih shantih shantih» con cui si chiude l’intero poemetto della Waste Land: un paradiso evocato sulla base dell’antropologia e delle aspirazioni etiche delle più grandi religioni di tutto il mondo, anziché attraverso una teologia capace di diventare chiave di lettura del «gran mar de l’essere». Occorrerebbe ancora soffermarsi su come Dante venne riadattato al contesto cubista e futurista della Rivoluzione sovietica, per esempio da Osip Mandel’štam, che lavorò a un suo Discorso (o anche Conversazione) su Dante agli inizi degli anni Trenta, rileggendo l’intero poema all’insegna dell’energia, dell’eccesso, dell’arditezza delle metafore, della multiformità, purtroppo proprio quando l’impeto del 1917 stava ormai bloccandosi: e Mandel’štam, che si riteneva inquieto e reietto proprio come Dante, usò a sua volta l’arma della satira contro Stalin, venendo poi mandato al confino. Non importano ovviamente i notevoli errori interpretativi dovuti a una conoscenza approssimativa del volgare italiano antico, perché appunto anche questo dimostra che la Divina commedia poteva raggiungere ogni contesto: in Russia fu amata, magari con prospettive diverse, pure da tanti altri artisti, da Vladimir Majakovskij ad Anna Achmatova.

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 7 Ma tornando in Italia, dopo la fase delle Avanguardie e quella del cosiddetto ‘Ritorno all’ordine’, i destini di un grande critico, Gianfranco Contini, che individuò in Carlo Emilio Gadda il prosecutore dell’espressionismo di Dante, si legarono definitivamente a quelli di un grandissimo poeta, Eugenio Montale, nel fatidico 1939, l’anno in cui escono la prima edizione del commento continiano alle Rime di Dante e le Occasioni . In questa raccolta, fondamentale per gli sviluppi della poesia italiana del XX secolo, Montale passa da una lirica ancora aperta e descrittiva, praticata negli Ossi di seppia, a una difficile (non oscura, per rifarsi ai termini di una distinzione classica) e metonimica, fatta di frammenti di realtà in attesa di un miracolo laico che li riscatti, e in questo vicina a Eliot e ai modernisti. Dopo le grandi prove dei Mottetti (nelle quali Dante è ben presente, come nel celebre attacco “Il ramarro se scocca / sotto la grande fersa…”, che riscrive Inf. 25, vv. 79-81), e dopo le magnifiche poesie conclusive, come Nuove stanze e Notizie dall’Amiata, Montale sarebbe addirittura pronto a creare un nuovo mito, quello della sua amata Irma Brandeis (fra l’altro studiosa di Dante) che può diventare Clizia, in parte simile a Beatrice. Occorre però la lunga prova del secondo conflitto mondiale, quando ormai Irma è e per sempre resterà lontana, negli Stati Uniti suo paese d’origine, per arrivare a una poesia fortemente allegorica, capace di sublimare i destini dei singoli individui (compresi il poeta e la sua amata) in quello generale dell’umanità scampata alla distruzione totale. Ecco allora che Dante s’impone per rappresentare il desiderio di riscatto e la possibile salvezza, come avviene nella parte conclusiva del celebre componimento La primavera hitleriana (1939-46, poi inserito nella raccolta La bufera e altro, 1956), in cui la distruzione della guerra e la speranza di rinascita sono superate, grazie all’opera di Clizia che, come Beatrice, ha guardato “in alto” verso Dio, e poi si è sacrificata addirittura “per tutti” gli esseri umani. 2. La scoperta degli orrori dei Lager, e in generale la prospettiva di eventi apocalittici come lo scoppio di una bomba atomica, ha segnato l’immaginario collettivo degli anni Cinquanta-Sessanta (e oltre) del XX secolo: Dante non poteva non essere rievocato in molti campi artistici, specie per il confronto tra il suo Inferno e gli inferni davvero realizzatisi sulla terra, da Auschwitz e Hiroshima sino alle città caotiche e oppressive dei nuovi colossi politici mondiali. Si può sottolineare, per comprendere l’entità della mutazione, che molti degli autori che avevano più da vicino conosciuto o subìto gli orrori della Grande guerra avevano preferito evitare il confronto con il mondo metafisico del poema dantesco per soffermarsi sulla descrizione dei comportamenti dei singoli nei loro limiti ‘umani’: basti pensare a scrittori che pure conoscevano e citavano Dante, come Karl Kraus, celebre autore di aforismi che, da Vienna, visse il tracollo dell’Impero austroungarico e lo rappresentò nella sua tragedia Gli ultimi giorni dell’umanità (1922); più capillare, ma non decisiva, la presenza dantesca in Thomas Mann, che peraltro porrà in esergo al suo romanzo Doktor Faustus (1947) l’esordio del II dell’ Inferno. Viceversa, il confronto con i destini descritti nella Divina commedia risulta immediato e necessario in chi, per esempio, è sopravvissuto alla Shoah. Ciò vale, come è ben noto, per il Primo Levi di Se questo è un uomo (1947), che trova la forza, nel cuore di Auschwitz (organizzato come un Inferno reale), di ricostruire a memoria il canto di Ulisse, in cui Dante rappresenta la spinta a cercare e a progredire persino nella consapevolezza di un possibile esito tragico. Ma emblematica è pure la riflessione di un altro grande interprete della Shoah, l’ebreo tedesco Peter Weiss che compone un suo dramma, L’istruttoria, messo in scena nel 1965, utilizzando per i dialoghi le testimonianze ai processi contro i carnefici nazisti. In quell’anno, settimo centenario della nascita di Dante, Weiss scrisse anche una Conversazione su Dante, nella quale finge di rispondere a domande sul ruolo dell’ Inferno nel mondo contemporaneo. Il primo affondo è quello che sottolinea una differenza sostanziale e drammatica rispetto all’Aldilà cristiano: «nel nostro inferno, infatti, giacciono gli innocenti». Se, dopo la Shoah, ci si accosta di nuovo al mondo esterno con l’intento di giudicarlo eticamente, ci si accorge che una Giustizia non è più rintracciabile, come avevano ormai mostrato autori quali Kafka e Beckett. Ciononostante, l’ Inferno riesce ancora a

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 8 straniare il male, a renderlo oggettivo e quindi visibile, presente: Weiss espone una considerazione molto acuta, sebbene legata ai parametri interpretativi tipicamente psicanalitici dell’epoca: «Come nell’ Ulisse di Joyce, il discorso [nella Divina commedia] scaturisce costantemente dal soggettivo, dall’onirico, tuttavia il materiale che fa venir su gorgogliando rispecchia la realtà esterna». È questo uno dei motivi per cui il poema dantesco può ancora apparirci equiparabile alla nostra condizione: nessun tipo di riscatto però si riesce a trovare nei luoghi dove persino Beatrice sarebbe ormai ridotta a cenere, come la Sulamith del celebre componimento Todesfuge (1952, ‘Fuga di morte’) di Paul Celan, uno dei massimi poeti del XX secolo, anch’egli segnato dalla Shoah. In generale, la tendenza a riconoscere nel poema dantesco una sorta di paradigma utilizzabile per saggiare i destini moderni, individuali e collettivi, si afferma sempre più largamente nel corso del Novecento. Se i personaggi del romanzo canonico sembrano sempre più di frequente disgiunti da una biografia certa e plausibile, il confronto con l’esito dei comportamenti, del tutto certo in Dante, può risultare significativo. È il caso di quella storia di autodistruzione che costituisce il nucleo di Under the Volcano (1947, ‘Sotto il vulcano’) dell’inglese Malcom Lowry, definita dall’autore «una Divina commedia ubriaca». Nel romanzo il ruolo dell’io-protagonista non è più quello dell’uomo che cerca, magari erroneamente, una verità e una salvezza per non vivere come i bruti, bensì al contrario cerca l’accecamento e appunto l’abbrutimento per evitare di guardare in faccia ciò che già sa: il non-senso del mondo esterno, potenzialmente distruttivo come il vulcano sotto cui ciascuno di noi vive. La distruttività di un’epoca che ha generato innumerevoli inferni può essere esemplificata in molti racconti allegorici, e addirittura in una serie di equivalenze precise che partono dalla ‘realtà-reale’ di una città, New York, diventata la presunta capitale del mondo ma pur sempre fatta di gironi ricolmi di reietti e di peccatori. Questa almeno è l’immagine che emerge da The system of Dante’s Hell (1965), romanzo-denuncia di LeRoi Jones, ovvero lo scrittore e intellettuale afroamericano Amiri Baraka, scomparso nel 2014, cantore del popolo del blues e nel contempo risoluto oppositore del ‘sistema’ capitalistico, che ha sancito la collocazione in ghetti di un’ampia parte della popolazione statunitense. Se adesso la denuncia può sembrare sin troppo ovvia, è importante che Baraka abbia deciso di far riferimento al paradigma dantesco che allora, fra i bianchi statunitensi di cultura medio-alta, poteva rappresentare un sistema di verifica etica riconoscibile, in cui risaltava chiara la distribuzione di colpe e pene (comprese quelle ingiustamente subìte). Gli esempi di riuso dell’opera di Dante sarebbero tantissimi altri: solo in Italia, il ritorno alla realtà e le nuove sperimentazioni linguistiche degli anni Cinquanta-Settanta trovano un punto di riferimento in una rilettura autonoma ma trasversale rispetto ad autori molto diversi tra loro, dall’Edoardo Sanguineti di Laborintus (1956) al Pier Paolo Pasolini di Divina mimesis (opera che intendeva riscrivere l’intera Divina commedia, iniziata nel 1963 ma incompiuta) e soprattutto di Petrolio (un grandioso romanzo-visione, i cui materiali sono stati pubblicati postumi nel 1992). Ma anche i grandi poeti Mario Luzi, Giorgio Caproni, Giovanni Giudici, Andrea Zanzotto e tanti altri autori italiani si confrontarono in quegli anni con le opere dantesche. Lo stesso Montale decise di spostarsi nell’ambito della “poesia inclusiva” e del comico nella sua ultima produzione, che si fa iniziare dalla pubblicazione di Satura (1971). Nel 1965, comunque, il ruolo fondamentale di Dante nella storia letteraria italiana e internazionale fu sancito da numerosissimi congressi scientifici e da tante iniziative editoriali, culminate pochi anni dopo nella nuova edizione critica della Commedia secondo l’antica vulgata (1966-1967), curata da Giorgio Petrocchi, che fece leggere il testo secondo lezioni (ossia parole o frasi) in molti casi diverse da quelle accettate per lungo tempo. In questa fase si stabiliscono inoltre alcuni paradigmi forti nell’interpretazione complessiva del poema nonché delle altre opere di Dante. Si è già più volte ricordata l’interpretazione che fa di Dante la sorgente del plurilinguismo e del pluristilismo, evocati da Contini, in confronto con il monolinguismo di Petrarca. Altrove il critico sottolineò invece una questione di tipo narrativo, ossia il ruolo del “personaggio che dice io” rispetto all’autore reale (si vedano i saggi riuniti

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 9 in Un’idea di Dante, 1976). Su questo problema si erano soffermati, direttamente o indirettamente, due altri interpreti tra i più importanti di questi anni, l’austriaco Leo Spitzer e lo statunitense Charles S. Singleton: il secondo, nei suoi ampi studi, pubblicati soprattutto a partire dal 1954, formulò alcune idee molto chiare sul rapporto fra testo del poema e allegoria, dato che, accettando in pieno le idee contenute nell’ Epistola a Cangrande, la Divina commedia doveva essere considerata una sorta di ultimo libro della Bibbia, vero nella lettera e però dotato di un’allegoria complessiva, secondo la quale il viaggio di salvezza del protagonista era in realtà quello che ‘Ogniuomo’ ( Everyman) avrebbe dovuto praticare. L’opera quindi proseguiva e completava la Vita nova, fondandosi su una grandiosa rilettura dell’intera teologia ebraico-cristiana, ma poteva poi essere apprezzata pure da un uomo moderno, laico, appunto per la valenza universale del suo messaggio. Le posizioni di Singleton trovarono molti sostenitori negli Stati Uniti (dove la lettura di Dante era assai diffusa sin dall’Ottocento) e in Europa, dove furono spesso lette a riscontro con quelle di Erich Auerbach, ebreo tedesco emigrato per questioni razziali e docente, fra l’altro, a Princeton e Yale. Nei suoi Studi su Dante (riuniti in traduzione italiana nel 1963) e in alcuni capitoli del suo capolavoro Mimesis (1946), una grandiosa serie di analisi sul problema della rappresentazione della realtà dalla Bibbia e da Omero sino a Virginia Woolf, Auerbach ebbe modo di precisare progressivamente le sue analisi dantesche, che segnalavano la grande diversità tra la Divina commedia e tutte le opere epiche greco-latine precedenti, e ne facevano una sorta di unicum di ambito cristiano, dato che solo Dante, prima del realismo ottocentesco, sarebbe riuscito a fornire una rappresentazione seria del ‘quotidiano’, peraltro trasponendolo nell’Aldilà. Infatti, secondo Auerbach il realismo dantesco dipendeva dalla sua concezione non genericamente allegorica ma specificamente figurale della realtà terrena, che trovava il suo compimento appunto nel giudizio finale, in base al quale gli uomini diventavano per sempre quanto erano stati parzialmente sulla terra: Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti, protagonisti del canto decimo dell’ Inferno, conservano negli avelli degli eretici i loro caratteri - fiero e pieno di dignità il primo, mediocre e sospettoso il secondo – fissati per sempre assieme alla loro punizione. Il critico sottolinea poi che lo stile dantesco corrisponderebbe a quello dei Vangeli, definito sermo humilis (‘lingua modesta, degli umili’) e però adatto a parlare di Cristo, quindi di qualunque argomento, persino altissimo: di qui l’idea di uno stile ‘comico’ che non si rivela inadatto a raccontare un viaggio sino a Dio. Queste interpretazioni consentivano di superare tanti ostacoli delle letture allegoriche tradizionali e per di più di collegare il grande capolavoro antico alle nuove tendenze moderne. Tuttavia, col tempo, si sono rivelati i limiti e le forzature di queste posizioni, che restano in parte valide ma non soddisfano più come esegesi complessive della grande produzione dantesca. Il plurilinguismo e il comico non coincidono con l’espressionismo (tanto meno in opere come il Fiore e il Detto d’amore, che pure Contini si propose di attribuire a Dante), ma nemmeno con il sermo humilis. Secondo Sant’Agostino, infatti, il cristiano poteva certo usarlo, ma non era obbligato a farlo, come per esempio si vede nelle Epistole di San Paolo, in parte alta teologia, in parte esortazione, in parte invettiva, e insomma non riducibili a un unico stile basso: questo è senz’altro il modo di procedere di Dante. Di sicuro, per Dante i modelli classici sono fondamentali (magari per essere emulati) quanto quelli cristiani, e con i tanti topoi che da essi derivano s’instaura una continua sfida, come ha sottolineato un altro celebre studioso, il tedesco Ernst Robert Curtius, nel suo capolavoro Letteratura europea e Medioevo latino (1948). Pur nelle loro forzature, molte di queste interpretazioni restano fra le più importanti e coerenti nella lunga storia del dantismo, specie se non risultano staccate dai contesti in cui sono nate. Per Auerbach come per Eliot e tanti altri critici o artisti, l’opera di Dante non è solo da leggere ma da fare propria, per riuscire a rappresentare drammatiche crisi simili a quella prodottasi con la Seconda guerra mondiale, oppure con i conflitti e le ingiustizie del secondo Dopoguerra. Le loro letture, come quelle di Singleton o di Contini o di altri illustri dantisti (da Étienne Gilson a Bruno Nardi…), forniscono una prospettiva coerente su Dante: ma forse, il

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 10 suo capolavoro assorbe persino la molteplicità ed è impossibile ridurlo a una sola componente, come si è sempre tentato di fare. 3. Dagli anni Ottanta del XX secolo predomina un allontanamento sempre più forte dal testo originale di Dante e una spinta a creare opere che, pur alludendo alla Divina commedia e a volte anche alla Vita nova, riscrivono, traspongono, rielaborano profondamente le possibili intenzioni dell’autore e persino le caratteristiche in apparenza sicure a livello esegetico. L’ambito del ‘dantesco’ diventa ancora più largo, e prima di tutto penetra nel territorio del pop: si contano fortunate traduzioni a fumetti alla Walt Disney (che aveva proposto un Inferno di Topolino già nel 1949), thriller letterari e cinematografici in cui Dante è un investigatore oppure fornisce un canovaccio per investigazioni, canzoni e articoli giornalistici che citano il poema, videogame ecc. Tutto questo sarebbe impossibile con altri classici, persino con quelli che volutamente ammiccavano non solo ai lettori colti, come nel caso dell’ Orlando furioso o del Don Chisciotte. Dante fornisce personaggi e vicende facilmente memorizzabili addirittura in culture molto diverse da quella italiana e interpretabili a più livelli, a volte sin troppo banali ma spesso dotati di efficacia. Questo territorio, al di là dei singoli esiti artistici, va percorso e indagato. Di certo, pure le letture pubbliche dedicate al poeta sono andate incontro a forti cambiamenti, dal periodo dei grandi attori che proponevano il loro Dante (in Italia, Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman o addirittura il grande trasgressore Carmelo Bene), a quello dei lettori-interpreti come Vittorio Sermonti, sino alla lettura semplice e piana, accompagnata da commenti attualizzanti, di Roberto Benigni. Nel contempo, pochi hanno osato ripetere i tentativi, un po’ velleitari, dei primordi del cinema, quando in varie occasioni si provò a mettere in scena, con un gusto davvero arretrato, la vita di Dante o intere cantiche: ormai pure nell’ambito pop occorrono idee forti e intuizioni creative fondate per affrontare di petto un autore che risulta uno dei pochissimi capaci di superare lo scoglio del successo di pubblico a distanza di secoli dal momento in cui ha prodotto la sua opera. È vero comunque che Dante resta amato e citato dai grandi scrittori attuali, poeti e, sempre più, narratori. Basti ricordare rapidamente il campione del fantastico ‘colto’, l’argentino Jorge L. Borges, che nel secondo Novecento ha dedicato vari suoi saggi a episodi particolari della Divina commedia, come l’apparizione dell’Aquila della giustizia nel Paradiso, trovando occasioni per confronti interculturali molto arditi, in questo caso con il magico uccello della cultura persiana, detto Simurg. Ma forse il riuso più innovativo che Borges fa dell’intera costruzione dantesca è quello del suo racconto La biblioteca di Babele (1941), che da molti punti di vista appare come una sorta di ‘mondo possibile’ in cui l’organizzazione di un aldilà perfettamente ordinato e finalizzato viene surrogata da un caos altrettanto perfetto, entropico, e nello stesso tempo creativo. La Biblioteca, «illimitata e periodica», costituirebbe l’unica ipotesi attualmente formulabile per conciliare il rapporto fra il nostro sapere, sempre più ampio e incontrollabile da un singolo individuo, e il mondo. Il destino, però, potrebbe essere quello di non conoscere più l’Ordine finale. In Giappone, un importante romanzo a sfondo autobiografico del premio Nobel Kenzaburō Ōe, Gli anni della nostalgia (1987), pone al centro del racconto un personaggio, Gii, che regola la sua vita su fondamenti e valori tipici della cultura nipponica, e che però, fedele soprattutto a una dignità e a una ricerca etica personale, considera importante confrontarsi con l’opera di Dante: giunge addirittura a citarne e a commentarne a più riprese passi che riguardano in particolare il Giudizio universale, a cominciare da Inferno XIII per arrivare agli ultimi canti del Paradiso. Tuttavia, essendo per Gii impossibile credere in un Paradiso cristiano, il luogo ultraterreno da lui più amato è il Purgatorio, precisamente la spiaggia che accoglie Dante e Virgilio all’uscita dall’Inferno: un luogo, pure per un personaggio di cultura nipponica, di momentanea requie, di speranza e di purificazione, raggiunto dopo aver evitato il naufragio che poteva, poco prima dell’arrivo all’isola sperata,

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 11 far precipitare di nuovo nell’abisso della dannazione eterna, come insegna la figura mitica di Ulisse, menzionata e discussa a lungo negli Anni della nostalgia. Se la prospettiva di Ōe è quella di confrontare i presupposti etici della sua civiltà con quelli ricavabili dalla Divina commedia, la linea seguita dal Nobel antillano Derek Walcott è stata invece di riconoscere un fondamento epico nell’esistenza di umili personaggi dei Caraibi, pescatori o commercianti che però assumono nel poema-racconto Omeros (1990) i nomi e quindi la possibile identità di grandi eroi, da Achille a Ettore a Elena. Il modello omerico viene intersecato con molti altri della cultura occidentale, ottimamente conosciuta da Walcott, e fra questi spicca Dante, che non solo fornisce un puntello metrico (il poema è scritto in terzine, sia pure molto più libere di quelle della Divina commedia), ma viene citato là dove è necessario sottolineare la valenza antropologico-religiosa di alcuni episodi: così, dopo che nel decimo capitolo del primo libro una zona dell’isola di Santa Lucia è stata descritta come luogo dei morti, si parla esplicitamente di «Holes of boiling lava / bubbled in the Malebolge» (‘buchi di lava incandescente / che ribolliva come nelle Malebolge’). Il testo propone un linguaggio mescidato per ragioni storiche e non solo stilistiche, ed è ben confrontabile con quello dantesco: e infatti lo stesso Walcott ha esaltato, in varie dichiarazioni, sia la capacità di Dante di delineare personaggi credibili pur nella rapidità della loro descrizione, sia quella di usare registri e toni diversi, senza limitazioni precostituite. Questi o altri importanti esempi che si potrebbero proporre a livello mondiale non devono però far dimenticare che il poema dantesco viene spesso ascoltato in performance orali, anziché letto approfonditamente, e ancora di più visualizzato grazie a immagini che sono ormai vere e proprie reinterpretazioni del testo di partenza. Questo vale ad esempio per la serie di illustrazioni di Salvador Dalì riservate all’ Inferno (1960) o per quella, pressoché contemporanea, di Robert Rauschenberg (1958-1960): le prime puntano sull’essenzialità e le prospettive stranianti (quindi surreali), le seconde sul collage di antico e moderno, con disegni che si intersecano a foto di attualità. Si cerca insomma una nuova via per rappresentare Dante uscendo dai vincoli sin troppo forti del tardo Ottocento, e di sicuro l’impegno diventa massimo nel caso di un artista inglese, Tom Phillips, nato nel 1937, il quale lavorò intensamente a un gruppo coeso di illustrazioni dell’ Inferno, e insieme a una sua traduzione personale e certo non superficiale. Phillips fece uscire un’edizione a tiratura limitata nel 1983, poi due anni dopo un’altra edizione con note di commento in cui rivendicava la possibilità di cambiare sempre modelli e stili nelle sue rappresentazioni: alla rivisitazione del famoso ritratto dantesco di Luca Signorelli (Orvieto, 1502 ca.) tante altre fanno seguito, anche con riferimenti a W. Blake e G. Doré, ma più di frequente alla cultura pop, comics, film come King Kong, icone alla Warhol o alla Lichtenstein e così via. Emerge un Inferno spiazzante, quasi privo di grandi personaggi sofferenti e di chiaroscuri violenti, mentre non mancano i toni comici e satirici, e in molti casi le immagini sembrano fare quasi da commento interpretativo (come è accaduto a volte già nel XIV secolo). L’impresa di Phillips trovò poi un’integrazione nella trasmissione della BBC A TV Dante, per la quale l’artista realizzò nel 1989 la trasposizione dei primi otto canti assieme al regista Peter Greenaway, già autore di film raffinati e spesso ispirati a opere d’arte. In questo caso si trattava di ottenere una sorta di commento audiovisivo, dotato di informazioni storicoculturali di base: il risultato è notevolissimo, nell’ambito dei documentari di qualità, e sfrutta al meglio la capacità di Phillips di mettere in cortocircuito il testo di Dante con immagini contemporanee (qui filmati di guerra, diagrammi scientifici, ecografie, interviste…). Di quanto elaborato per l’edizione a stampa del 1983 rimane molto poco, a dimostrazione che le esigenze di un video sono distinte da quelle dei libri con illustrazioni fisse. Prevalgono in questo caso le scene con molte figure, spesso ammassi di corpi nudi, privilegiati rispetto alla rappresentazione dei grandi individui. Queste imprese non hanno raggiunto una notorietà pari a quella degli illustratori del XIX secolo. Non sono mancati peraltro interessanti tentativi di ricondurre l’immaginario dantesco a un livello più astratto (per esempio in The Dante Quartet dello statunitense Stan

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 12 Brakhage, 1987), oppure a una complessità ricca di allusioni (come in Book of All the Dead, 1975-1994, del canadese R. Bruce Elder). Una carica distruttiva e rigenerativa degna delle tragedie antiche si sentiva nell’ Inferno e nel Purgatorio messi in scena dalla “Societas Raffaello Sanzio”, guidata da Romeo Castellucci, ad Avignone (2008), tanto che la partecipazione attiva degli spettatori era indispensabile per ricreare non tanto Dante “alla lettera” quanto la drammaticità della sua opera. La via allegorica di Phillips e Greenaway o quella simbolica di Castellucci impongono comunque di riflettere su come si riesce a rinnovare oggi l’impatto e l’effetto profondo che il poema poteva suscitare alla sua uscita. Più in generale, tra XX e XXI secolo prevalgono decisamente le rivisitazioni che si rivolgono a vari tipi di fruitori, pronti a immergersi in modi ‘liberi’ nel testo di Dante, sentito ormai come una sorta di generatore di immagini prima ancora che di parole. Ecco quindi il Dante in versione manga (1993-1994) del giapponese GoNagai, nato nel 1945, il quale ha poi dichiarato che pure alcuni dei suoi personaggi più celebri, come Goldrake, dipendono da un’attenta lettura giovanile di una Divina commedia illustrata da Doré. Viceversa agli inizi del Duemila lo statunitense Sandow Birk (1962) propone rappresentazioni iper-realistiche che trasferiscono Inferno, Purgatorio e Paradiso in contesti californiani abbastanza riconoscibili, poi combinati con una traduzione in inglese moderno (2005). E ancora si possono ricordare l’album Dante del rapper francese Abd-al-Malik, il videogame della Sony Dante’s Inferno (2010), il film Inferno (2016) diretto da Ron Howard e tratto dal bestseller di Dan Brown (2013 e 2016), The Dante Chamber , nuovo romanzo di Matthew Pearl (2018) che prosegue la serie iniziata con il fortunatissimo The Dante Club (2003), un album dei rapper Claver Gold e Murubutu è intitolato Infernvm (2020): e tanto altro sta uscendo nel corso di questo 2021. Di sicuro uno degli aspetti più attuali di Dante è quello della sua varietà incessante: per parafrasare le sue parole, la Divina commedia è un mare di essere ed esseri che, verso dopo verso, terzina dopo terzina, canto dopo canto, raggiunge un ordine nell’Ordine supremo. E poi, penetrata nelle menti dei lettori, ricomincia ad agire, pronta a fornire nuove idee per rappresentare ogni altra realtà che per noi, adesso, costituisce l’Universo. Indicazioni bibliografiche Un’ampia bibliografia sugli argomenti qui toccati si trova in A. Casadei, Dante oltre la “Commedia” (Bologna, il Mulino, 2013) e in Id., Dante oltre l’allegoria, Ravenna, Longo, 2021). Si vedano inoltre L. Battaglia Ricci, Dante per immagini. Dalle miniature trecentesche ai nostri giorni , Torino, Einaudi, 2018; G. Sangirardi-J.M. Fritz (a cura di), Dantesque. Sur les traces du modèle, Paris, Garnier, 2019; R. Rea-J. Steinberg (a cura di), Dante, Roma, Carocci, 2020; A. Casadei-P. Gervasi, La voce di Dante. Performance dantesche tra teatro, tv e nuovi media, Roma, L. Sossella, 2021. Per informazioni sempre aggiornate, si veda il sito del Gruppo Dante dell’Associazione degli Italianisti: www.dantenoi.it. Il presente lavoro riprende in parte l’ultimo capitolo di A. Casadei, Dante, Milano, il Saggiatore, 2020.

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 13 Dalla selva del peccato alla visione di Cristo La presenza di Maria nella Divina Commedia P. Giuseppe Oddone Introduzione La poesia italiana è profondamente affascinata dalla figura della Vergine Maria. Fin dalle origini della nostra letteratura lungo il corso dei secoli tanti poeti hanno levato la loro voce, attratti dalla bellezza umana e spirituale di questa donna, capolavoro di Dio, ed hanno espresso in immagini e ritmi la loro ammirazione, il loro amore, la loro preghiera. Così hanno fatto – citando solo i più importanti - nel Duecento gli anonimi cantori di laudi e Jacopone da Todi, nel Trecento Dante, Petrarca e Boccaccio, nel Rinascimento il Poliziano, Lorenzo il Magnifico e Torquato Tasso, nell’Ottocento il Manzoni ed il Carducci, nel Novecento il Pascoli, e diversi poeti ermetici quali Ungaretti e Montale ed altri poeti contemporanei. Ma nessun poeta ha sentito il fascino di Maria con tanta forza e convinzione come Dante, nutrito da una profonda devozione quotidiana verso di Lei, “il nome del bel fior ch’io sempre invoco - e mane e sera” (Paradiso XXIII, 88-89), tanto che la Vergine è diventata un elemento vitale della sua creazione poetica, e noi possiamo leggere tutto il suo capolavoro, la Divina Commedia, come una celebrazione, sotterranea e nascosta nell’Inferno, solare e luminosa nel Purgatorio e nel Paradiso, della Donna del cielo. Lo smarrimento di Dante nella selva oscura Dante è entrato, praticamente senza rendersene conto, nella selva oscura del peccato, in una situazione di lontananza da Dio, in una forma di accecamento spirituale. Probabilmente allude alla crisi morale e filosofica che egli ha affrontato nella sua giovinezza tra il 1290, anno della morte di Beatrice, e l’anno giubilare del 1300. Il poeta infatti attraversò un periodo di sbandamento interiore, conquistato dalla teoria dell’amore cortese e dalle passioni della carne, se dobbiamo prendere sul serio alcune allusioni della Vita nova dopo la morte di Beatrice e della stessa Divina Commedia (cfr. Purgatorio XXXI, 57-60), che lo gettano in un turbine di amori facili e libertini, confermati per altro da alcune poesie delle Rime come le liriche per Fioretta o Violetta: “Per una ghirlandetta ch’io vidi, mi farà sospirare ogni fiore”. (Dante Rime LVI) “Deh, Violetta, che in ombra d’Amore negli occhi miei sì subito apparisti, aggi pietà del cor che tu feristi, che spera in te e disiando more”. (Dante Rime LVIII) e per Donna Petra: “Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra (acquista) maggior durezza e più natura cruda, e veste sua persona d’un diaspro (corazza adamantina) tal, che per lui, o perch’ella s’arretra, non esce di faretra

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 14 saetta che già mai la colga ignuda: ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda né si dilunghi da’ colpi mortali che, com’avesser ali, giungono altrui e spezzan ciascun’arme… S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille: e non sarei pietoso né cortese…” (Dante Rime CIII) Ma Dante ha attraversato anche una crisi filosofica: l’amicizia con Guido Cavalcanti lo ha portato ad un desiderio di evasione, di fuga dalla realtà, rappresentata da questo vascello magico ove egli con gli amici poeti, ognuno con le proprie donne, desiderano ragionare sempre d’amore: "Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio; sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio. E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore (il mago Merlino): e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi”. (Dante Rime LII) e lo ha avvicinato al pensiero di Averroè e ad una visione materialistica della vita. Se c’è un’eternità per l’amico Guido Cavalcanti essa appartiene solo alla poesia che porta l’anima distrutta dalla morte alla donna amata per adorarne la bellezza e rimanere sempre con lei: “Tu senti, ballatetta, che la morte mi stringe sì, che vita m’abbandona; e senti come ’l cor si sbatte forte per quel che ciascun spirito ragiona. Tanto è distrutta già la mia persona, ch’i’ non posso soffrire: se tu mi vuoi servire, mena l’anima teco (molto di ciò ti preco) quando uscirà del core.

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 15 Deh, ballatetta, a la tu’ amistate (compiacenza) quest’anima che trema raccomando: menala teco, nella sua pietate, a quella bella donna a cu’ ti mando. Deh, ballatetta, dille sospirando, quando le se’ presente: «Questa vostra servente vien per istar con voi, partita da colui che fu servo d’Amore». Tu, voce sbigottita e deboletta ch’esci piangendo de lo cor dolente, coll’anima e con questa ballatetta va’ ragionando della strutta mente. Voi troverete una donna piacente, di sì dolce intelletto che vi sarà diletto starle davanti ognora. Anim’, e tu l’adora sempre, nel su’ valore”. (Cavalcanti Rime XXXII) La presenza di Maria nell’Inferno Tutto il viaggio di Dante dalla selva del peccato, in cui il poeta si è smarrito, fino alla visione del mistero di Dio uno nella sostanza e trino nelle persone e del volto di Cristo ha per così dire un filo nascosto, un’aurea catena che compatta la vicenda umana e cristiana: è l’intercessione della Vergine Maria che suscita la misericordia di Dio e salva Dante dalla perdizione e lo porta alla salvezza. Egli prende coscienza della sua situazione di peccatore. Comprende ben presto che non può far conto sulle sue forze per salire il dilettoso monte della vita divina, perché tre fiere gli sbarrano la strada: la lonza simbolo della lussuria, il leone simbolo della superbia, la lupa simbolo dell’avidità dei beni terreni. Egli rovina nuovamente in basso, quando gli appare Virgilio. Egli spiega a Dante che una catena di mani soccorritrici giunge a lui dal mistero inaccessibile di Dio. È la Vergine Maria che prova dolore per la situazione di Dante e spezza il duro giudizio di condanna: in realtà essa è anche simbolo della misericordia divina, della grazia preveniente che salva; Maria chiama Lucia, la martire siracusana che Dante ha in grande venerazione, simbolo della grazia illuminante, Lucia convoca Beatrice, creatura celeste ed insieme umana, calda d’affetti per il suo amico smarrito, simbolo della grazia attuale; Beatrice chiama a sua volta Virgilio, il poeta classico più amato da Dante, simbolo della ragione umana, in cerca di salvezza: personaggio forte sì, ma anche lui debole e turbato in molte circostanze per l’opposizione delle forze del male. Dante dice di aver trovato del bene nella selva oscura: “per trattar del ben ch’i vi trovai” (Inferno I, 8). Qual è questo bene? Certamente il prendere coscienza della sua lontananza da Dio, il pentimento, la consapevolezza che l’uomo non può salvarsi con le sue sole forze, la necessità della grazia: tutto questo fa rifiorire la sua vita ed il suo passato. Egli riscopre l’importanza dei suoi studi e della sua cultura classica (Virgilio), riprende l’ideale giovanile dell’amore per una donna che dà gioia e salvezza ed eleva a Dio (Beatrice). Virgilio spiega a Dante che egli deve compiere altro viaggio nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, prendere coscienza di tutta la realtà umana, capire la libertà dell’uomo e come egli con le sue scelte terrene costruisca il suo destino eterno. I due poeti finiscono per condividere questa certezza: il viaggio nell’aldilà è voluto da Dio per intercessione di Maria,

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 16 che ha attivato tutta una serie di aiuti soprannaturali e di guide che Dante incontrerà via via sul suo cammino: Virgilio stesso, poi Matelda, quindi Beatrice, e San Bernardo. La resistenza del male e l’appello velato a Maria Non è un viaggio facile quello dell’Inferno: scendendo di girone in girone i due poeti si vedono spesso sbarrata la strada, perché è difficile per l’intelligenza dell’uomo capire la realtà negativa del male: essa tende a nascondersi per non farsi scoprire, per non essere eliminata. E gli uomini stessi spesso preferiscono ignorarla. Il nome di Maria, come del resto quello di Gesù Cristo, per rispetto non compare mai nell’Inferno. Però vi sono delle chiare allusioni alla volontà divina, mossa come sappiamo dall’intercessione della Vergine: per vincere le resistenze di Caronte prima e di Minosse poi, Virgilio dice loro: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”. (Inferno III, 95-96; V, 23-24). Nel Paradiso la Vergine Maria è definita da San Bernardo “Regina che puoi, ciò che tu vuoli” (Paradiso XXXIII, 33-34); Bernardo si esprime con gli stessi verbi già usati da Virgilio nell’Inferno. Così davanti alla rabbia di Pluto, il poeta latino precisa ancora che si vuole così nel Paradiso, dove l’arcangelo Michele vinse la superba ribellione di Lucifero: “Non è sanza cagion l’andare al cupo: vuolsi ne l’alto, là dove Michele fè la vendetta del superbo strupo (ribellione)”. (Inferno VII, 10-12) La resistenza più accanita è incontrata dai poeti quando cercano di entrare nella città di Dite, protetta dai diavoli. Lì non bastano più le parole che indicano la volontà divina: eppure Virgilio è consapevole che questa opposizione sarà vinta con un intervento che verrà dall’alto. “...Il nostro passo non ci può torre alcun: da tal n’è dato!” (Inferno VIII, 104-105). È necessario infatti che intervenga l’angelo di Dio ad aprire con una verghetta la porta di Dite e spezzare la resistenza del male, che come sempre vuole nascondersi ed occultarsi. Sappiamo dal Purgatorio che gli angeli che scendono a difendere i principi dalla tentazione del demonio vengono dal “grembo di Maria” (Purgatorio VIII, 37). Neppure qui è da escludere una tale ipotesi, anche se non è espressamente detto. “Pur a noi converrà vincer la punga (battaglia) cominciò el, se non… Tal ne s’offerse. Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga!” (Inferno IX, 7-9). L’esemplarità educativa di alcuni personaggi dell’Inferno Dante è ormai convinto che deve penetrare fino al fondo dell’abisso del male per portare a termine la sua conversione: pertanto in ogni personaggio dell’Inferno il poeta intuirà i rischi che ha corso di perdersi lontano da Dio. La realtà ed i personaggi che egli incontra gli

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