“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 57 concesso a chi vince le tentazioni, ed ai poveri ed agli umili che ripongono la loro fiducia in Dio. Dante ha attinto dalla parola di Dio la speranza con tanta abbondanza da poterla riversare sugli altri. L’apostolo Giacomo è davvero compiaciuto di questa risposta, perché la luce in cui è avvolto emette improvvisi bagliori, ma aggiunge un’ulteriore domanda: vuole sapere che cosa promette concretamente la virtù teologale della speranza. Dante risponde con sicurezza che l’antico ed il nuovo testamento indicano con precisione l’oggetto della speranza: il profeta Isaia afferma infatti che le anime amiche a Dio, giunte nella propria patria, che è la dolce vita del paradiso, risorgeranno con il loro corpo e San Giovanni nell’Apocalisse conferma questa verità rivelata, parlando delle bianche stole dei beati, ossia dei loro corpi gloriosi e luminosi. Tutti i beati approvano la risposta di Dante: una voce intona il versetto del salmo IX, “Sperent in te”, e ad essa rispondono in coro le corone luminose e danzanti dei santi. La speranza è pertanto la seconda delle virtù teologali, infusa da Dio in chi crede e riceve il battesimo: è una speciale grazia divina che eleva l’uomo al di sopra delle sue forze naturali. Egli confidando in Dio e nella sua infinita bontà, ha la certezza di raggiungerlo come suo ultimo bene, divenendo partecipe della stessa vita di Dio: un bene che sorpassa tutte le possibilità umane. I meriti, se così si può dire, che precedono il dono della grazia, non sono sufficienti per ottenerla: i meriti conseguenti alla grazia ed effetto di essa entrano tuttavia come elemento secondario, ma necessario per fondare la speranza, che stimola a vivere con passione ogni azione del tempo presente. Tutta la Divina commedia è di fatto compenetrata di speranza soprannaturale, tanto da ricevere da essa il suo slancio profetico ed il suo dinamismo. Maria, definita nel Paradiso per i mortali “di speranza fontana vivace” (Par. XXXIII,12) sostiene tutto il cammino di Dante, attraverso l’Inferno, il Purgatorio. La speranza di vedere Dio spinge Dante e le anime purganti alla penitenza ed all’acquisizione della virtù e riempie di gioia il poeta che sale con Beatrice nei vari cieli fino alla visione conclusiva di Dio. L’esame sulla carità Dante riflette spesso nella Divina Commedia sulla virtù teologale della carità. Essa è l’amore di Dio che si riversa sulle sue creature: egli le ha chiamate all’esistenza liberamente, per poter effondere su di esse anche lo splendore della sua vita, quando “s’aperse in nuovi amor l’eterno amore” (Par. XXIX, 18). La carità ha pertanto un’origine divina e partecipare a questo amore da parte delle creature dotate di intelletto e volontà è una risposta a Dio, un vincolo che ci lega a Colui che ci ha chiamati a partecipare allo splendore della sua gloria. Dio è un infinito ed ineffabile bene che si riversa nell’anima che vuole amarlo. Egli effonde e riceve amore come i raggi del sole corrono allo specchio che li assorbe e poi a sua volta li restituisce (Cfr. Purg. XV, 67-75). L’amore, luce divina e sommo bene, risplende prima di tutto nella nostra intelligenza; quando questa luce divina è accolta e interiorizzata, essa da sola e per sempre accende l’amore verso di sé. E se nella vita un altro oggetto attrae il nostro amore, questo non è che una parvenza di quella luce eterna che traspare in esso, scambiato per il bene. (Cfr. Par. V, 7-12). La disposizione ad amare è innata nell’uomo ed è buona, essa proviene da Dio, ma non sempre l’oggetto che attrae l’anima, suscitando il desiderio di possedere la cosa amata, è buono. (Cfr. Purg. XVIII, 34-39). Provvisoriamente abbagliato dalla luce di San Giovanni Evangelista, ma con la certezza di recuperare la vista per virtù dello sguardo di Beatrice, Dante sostiene davanti a questo apostolo il suo terzo esame sulla carità. Lo affronta senza perdersi nell’annullamento mistico in Dio, ma con prevalenza di argomenti tratti dalla ragione e dalla fede. Dio è il principio e fine di ogni autentico amore; questa verità gli viene dalla rivelazione, ma il poeta ama arricchire la sua riflessione anche con ragionamenti filosofici: l’uomo non può non amare il suo bene. Ora il sommo dei beni è Dio e tutti gli altri beni derivano da lui, non sono che un lume del suo raggio. Se si ha una conoscenza viva di questo fatto non è possibile non amare Dio sopra ogni altra cosa. Ma vi sono anche altri stimoli che spingono Dante a corrispondere all’amore di Dio
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