“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 35 dal bel giardino che sotto i raggi di Cristo si infiora. Anche il suo linguaggio poetico acquista una delicata levitazione musicale, si allarga in ritmi distesi, si arricchisce continuamente di nuove metafore (giardino, rosa, gigli, profumi, stella, fuoco, splendori, lumi, facella, zaffiro, ecc.), di metonimie (amore angelico per dire l’arcangelo Gabriele, l’alta letizia per significare Maria, il nostro desiderio per indicare Cristo, la circolata melodia per esprimere il canto e la danza perfetta dell’arcangelo, ecc.), di paragoni (la melodia terrena inadeguata per esprimere il canto celeste, il bambino che tende le braccia alla mamma, ecc.). La carica emotiva del poeta, i tocchi profondi e delicati con cui Maria viene rappresentata, l’intensità affettiva, la devozione personale e profonda fanno sì che questo canto rappresenti una delle più alte espressioni poetiche del culto mariano. Dante per celebrare Maria ha creato un linguaggio poetico irripetibile, una lirica pura degna di Colei al quale egli deve la sua salvezza. Nel cielo delle stelle fisse Dante, dopo il trionfo di Maria, affronta il triplice esame sulle virtù teologali, interrogato dapprima da San Pietro sulla fede, da San Giacomo sulla speranza, da San Giovanni evangelista sulla carità. Giovanni è indicato da Beatrice come colui che poggiò il capo sul petto di Cristo, definito il nostro pellicano perché secondo la leggenda questo uccello risuscita i suoi figli e li nutre con la sua carne, squarciandosi il petto. Giovanni inoltre fu prescelto da Cristo sulla croce per il “grande ufficio” di prendere nella sua casa e di custodire come madre Maria, compito affidato a lui come rappresentante di tutti i discepoli di Gesù. C’è un’implicita allusione a Maria che nel dolore genera i suoi nuovi figli proprio ai piedi della Croce. “Questi è colui che giacque sopra ‘l petto del nostro pellicano; e questi fue di su la croce al grande officio eletto”. (Paradiso XXV,112-114) Dante fissa poi la sfavillante luce di Giovanni per accertarsi se è vero che è già in cielo con il suo corpo, ma il santo, che ha intuito la curiosità del poeta, risponde in modo deciso e perentorio dichiarando che in anima e corpo ( le due stole) in Paradiso ci sono solo Gesù Risorto e la Vergine Maria. Dichiarazione importante di una verità di fede, presente nella tradizione secolare della Chiesa, creduta e vissuta dal popolo cristiano, che sarà proclamata dogma solo tanti secoli dopo dal Papa Pio XII nel 1950. Dante inoltre viene incaricato da Giovanni di farsi apostolo e propagatore di questo mistero mariano sulla terra. “Con le due stole (anima e corpo) nel beato chiostro son le due luci sole che saliro (Cristo e Maria); e questo apporterai nel mondo vostro”. (Paradiso XXV, 127-129) Nel cielo del Primo mobile Dante e Beatrice entrano poi nel cielo cristallino o primo mobile. È il cielo più veloce, da cui secondo la concezione medievale si irradia il movimento di tutti i cerchi celesti e da cui, quindi, deriva la divisione del tempo. Racchiude gli altri cieli ed è racchiuso dall’Empireo, che qui appare al poeta come un punto luminosissimo. Dante descrive poi i cori angelici ed affronta il problema della creazione degli angeli, dei cieli, dei primi elementi ed indirettamente di tutta la realtà e della vita del cosmo. Non abbiamo nessun cenno a Maria, che Dante ritiene la più alta di tutte le creature, superiore agli stessi Serafini, ma è opportuno riportare i versi del poeta che descrivono il mistero della creazione, dovuto all’amore libero e gratuito di Dio. “Non per avere a sé di bene acquisto, ch’esser non può, ma perché suo splendore
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