EB_...e quindi uscimmo a riveder le stelle

“…e quindi uscimmo a riveder le stelle” 33 Nel cielo di Giove e di Saturno Nel cielo di Giove si affronta il problema della giustizia civile, e Dante esprime il suo desiderio che essa risplenda in tutto il suo fulgore sulla terra, sia nei principi che nei papi; medita inoltre sul mistero della salvezza dei cristiani e dei pagani. Non abbiamo tuttavia richiami diretti alla Vergine Maria. Un brevissimo accenno si trova solo nel cielo di Saturno ove il poeta incontra gli spiriti contemplativi. Dante si convince di non poter comprendere con la ragione il mistero della predestinazione parlando con San Pier Damiani, dapprima monaco e poi cardinale riformatore della Chiesa, il quale conservò questo nome finché visse nel monastero di fonte Avellana, ma quando dimorò nella chiesa di Santa Maria in Porto a Ravenna preferì chiamarsi e firmarsi Pietro Peccatore, come se il tempio mariano gli avesse fatto prendere una sofferta consapevolezza dei suoi limiti e dei suoi peccati: “In quel loco fu’ io Pietro Damiano e Pietro Peccator fu’ ne la casa di Nostra Donna in sul lito adriano”. (Paradiso XXI, 121-123) Nel cielo delle stelle fisse Dopo che Dante è entrato nel cielo delle stelle fisse, proprio nella costellazione zodiacale dei Gemelli, poiché in essa sorgeva e tramontava il sole quando il poeta respirò per la prima volta l’aria diToscana, scendono dall’Empireo Cristo, Maria e tutti i santi sotto forma di luci luminosissime ad accogliere Dante e Beatrice. Cristo è la luce sorgiva che accende tutte le altre luci e Dante non riesce a sostenerne la vista: ha un momento di estasi e quando si riprende guarda negli occhi Beatrice affascinato dal suo sguardo e dal suo sorriso. Essa lo invita a guardare le anime beate, fiori splendidi del giardino che fiorisce sotto la luce solare di Cristo. Lì vi è Maria, la rosa il in cui il Verbo di Dio si fece carne, lì vi sono gli apostoli, gigli al cui profumo l’umanità si incamminò sulla via della fede. «Perché la faccia mia sì t'innamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s'infiora? Quivi è la rosa in che 'l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino». (Paradiso XIII, 70-75) Dante rivolge allora lo sguardo a quelle turbe di splendori, penetrate dalla luce che proviene da Cristo, sorgente luminosa che si nasconde tuttavia con benevolenza al suo sguardo, poiché egli non sarebbe in grado di sostenerla. Sentendo da ogni parte invocare il nome di Maria, fiore stupendo che il poeta invoca ogni mattina ed ogni sera, egli cerca con lo sguardo lo splendore più luminoso: Maria è la stella più lucente per qualità ed intensità, e riceve anch’essa la sua luce da Cristo, ed è la più bella e la più santa di tutte le creature in Paradiso come lo fu sulla terra. Proprio per questo essa viene incoronata da un accesa fiamma circolare, che le ruota intorno. È l’arcangelo Gabriele che canta con tanta dolcezza la gloria di Maria, la gemma più preziosa del Paradiso, che le melodie terrene più belle ed affascinanti in confronto sembrerebbero fastidiosi rombi di tuono. Si esprime così: “Io sono angelo pieno d’amore che circondo di luce il grembo in cui albergò Cristo, nostro desiderio, e vi danzerò intorno fino a che tu, Donna del cielo, non sia risalita dietro a tuo Figlio nell’Empireo, in modo da renderlo ancora più luminoso”. Così termina la melodia cantata dall’angelo mentre le danza circolarmente intorno.Tutti i santi rispondono facendo risuonare il nome di Maria.

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