Può l’intelligenza artificiale aiutarci a capire il funzionamento dei nostri pensieri?

Fabio Calvino

La ricercatrice Gary Stix, su Scientific American, ha pubblicato un articolo dal titolo “Per pensare non servono le parole” (traduzione ad opera di Le Scienze del 13/11/2024 a cui questo scritto fa riferimento, come ogni citazione di seguito riportata).

L’incipit è molto accattivante: ≪Gli studi sul cervello, e su persone che hanno perso le facoltà linguistiche, dimostrano che il linguaggio non è essenziale per i processi cognitivi. E i modelli di intellligenza artificiale offrono finalmente un potente “organismo modello” per studiare sperimentalmente i meccanismi linguistici≫.

Da quasi due secoli, se vogliamo fermarci agli studi illuministici, ma forse da sempre, l’uomo ha indagato e riflettuto sulle connessioni tra linguaggio e pensiero, sui loro intrecci e domandosi se il linguaggio sia un prerequisito per il pensiero.

Federico II di Svevia, attuò un esperimento, crudele in realtà, per scoprire se esistesse una lingua primigenia, un linguaggio innato che non fosse influenzato dall’ambiente di crescita di un bambino. Prese quindi un gruppo di neonati e lo fece allevare per anni, in un ambiente chiuso, da balie che avevano l’obbligo di non parlare loro nel modo più assoluto. L’esperimento ebbe un epilogo drammatico: i bambini non svilupparono nessun tipo di linguaggio primigenio e non impararono mai più a parlare bene nessuna lingua.

Bertrand Russell ha affermato senza ombra di dubbio che lo scopo del linguaggio è di “rendere possibili pensieri che non potrebbero esistere senza di esso”.

Le osservazioni del mondo naturale ci permettono di concordare con quanto detto dal filosofo e matematico britannico?

Molti animali risolvono problemi di varia complessità anche senza l’uso di parole: gli scimpanzè possono superare gli umani in un gioco di strategia, alcuni corvi si costruiscono da sé strumenti per catturare le prede e addirittura un mollusco, il polpo, mostra un’elevata raffinatezza nella risoluzione di giochi di “escaping” e, forse, anche una capacità emotiva e giocosa inaspettata (provate a vedere il documentario “Il mio amico in fondo al mare” prodotto da Netflix).

È evidente che gli esseri umani abbiano raggiunto un livello di astrazione che non riscontriamo negli altri viventi, come la risoluzione di equazioni differenziali o la composizione di sinfonie, o, ancora, opere di architettura che sfidano le leggi naturali e elevano l’animo di chi le osserva. La ricercatrice Gary Stix si è posta le seguenti domande: il linguaggio è necessario al raggiungimento di questi traguardi? Abbiamo bisogno di parole e strutture grammaticali per costruire le cose? Oppure sono le regioni cognitive del cervello a concepire pensieri già pienamente sviluppati, che poi trasmettiamo usando le parole come mezzo di comunicazione? (fonte Le scienze ibidem)

Evelina Fedorenko, neuroscienziata presso il MIT di Boston, ha basato il proprio lavoro pluriennale nella ricerca di una risposta a queste domande. Da accesa sostenitrice dell’ipotesi “il linguaggio genera il pensiero” da quindici anni ha impostato una serie di indagini rigorose grazie alle tecniche di imaging cerebrale. Ha esposto queste ricerche in un articolo apparso su “Nature” “il linguaggio e il pensiero sono entità distinte che il cervello elabora separatamente.” Secondo questi studi, i livelli più alti della cognizione, problem solving avanzato, ragionamento sociale, o astrazioni matematiche, riescono a procedere anche senza l’aiuto di parole o strutture linguistiche.

In un’intervista rilasciata su “Scientific American”, la ricercatrice ha definito il linguaggio come una sorta di telepatia, che ci permette di comunicare i nostri pensieri agli altri e di attuare la trasmettere di conoscenze alla generazione successiva. Le persone affette da afasia, infatti, sono in grado di svolgere una serie di compiti cognitivi fondamentali per il pensiero, eppure possono non essere in grado di pronunciare una sola parola.

Fedorenko ha dichiarato di essere partita dall’idea che gli esseri umani possedessero un apparato fisiologico, un “macchinario speciale, particolarmente adatto a calcolare le strutture gerarchiche”. Da qui l’idea di studiare il luogo cerebrale in cui il linguaggio, in quanto struttura gerarchica, si forma.

Ha cercato di superare gli studi precedenti che riteneva poco efficaci, senza però trovare nessun organo o luogo della corteccia cerebrale che potesse rispondere positivamente alla ricerca. Si è, di conseguenza, discosta dalle teorie di Chompsky per scoprire che pensiero e linguaggio sono sistemi separati.

Ha analizzato le varie prove a disposizione, che di seguito riassumeiamo in modo sintetico: osservazione dei deficit in diverse abilità, nelle persone con danni cerebrali e l’imaging cerebrale.

Nel primo caso si studiano persone affette da problematiche di afasia dalla nascita o in seguito a traumi di vario genere, fornendo loro compiti che implichino l’utilizzo del pensiero, come la risoluzione di problemi matematici. Nel secondo caso si utilizzano le indagini non invasive del funzionamento del cervello, come ad esempio la risonanza magnetica funzionale, che permettono di individuare i flussi di sangue legati ad attività cerebrali specifiche. Ha quindi studiato persone con afasia acquisita, anche globale, osservando che la loro capacità di problem solving non ne era rimasta influenzata.

Alla domanda su quale fosse il ruolo del linguaggio se non è quello di pensare, ha risposto che ovviamente il linguaggio è molto utile allo sviluppo del pensiero e la maggior parte delle cose le apprendiamo attraverso il linguaggio, ma considera questo una sorta di conseguenza, uno sviluppo secondario, parziale. Una volta che il linguaggio ha permesso la trasmissione di conoscenze, il cervello le rielabora senza la necessità del linguaggio stesso. Infatti non possiamo leggere la mente degli altri. Altri studi portano a comprendere quanto le lingue siano importanti per trasmettere informazioni in modo efficiente, soprattutto ai bambini.

Il linguaggio, però, è un sistema funzionale complesso, espanso nella corteccia cerebrale, non insito in un solo organo o una sola area. Non è l’unico sistema espanso, vi è un sistema che ci permette di ragionare su altre menti, un altro che ci permette di integrare le informazioni fra contesti diversi, …

Ma allora come interagiscono i sistemi del linguaggio e del pensiero?

Dato che le neuroscienze non hanno grosse opportunità di indagare in tal senso, diventano utili i sistemi di intelligenza artificiale di tipo dialogativo, come chat GPT-2, e altri simili. L’utilità di questi modelli è insita nella loro capacità di sviluppare linguaggio, anche ben strutturato, con sequenze sintattiche corrette, ma in assenza di grandi capacità di pensiero: ≪il che si allinea bene con l’idea che il sistema linguistico di per sé non è ciò che fa pensare. […] Ma noi e molti altri gruppi stiamo facendo un lavoro in cui prendiamo una qualche versione di un modello linguistico di rete neurale artificiale come modello del sistema linguistico umano. E poi cerchiamo di collegarlo a un sistema che sia più simile a quello che pensiamo sia il sistema del pensiero umano, per esempio, un sistema di risoluzione di problemi simbolici come un’applicazione matematica. Con questi strumenti di intelligenza artificiale, possiamo almeno chiederci: “Quali sono i modi in cui un sistema di pensiero, un sistema di ragionamento, può interagire con un sistema che memorizza e utilizza rappresentazioni linguistiche?” Questi approcci cosiddetti neurosimbolici offrono un’opportunità entusiasmante per iniziare ad affrontare queste domande≫ (fonte Le Scienze Ibidem).

Ecco che i grandi modelli linguistici diventano il primo organismo modello non organico per approfondire le ricerche sui legami fra pensiero e linguaggio. Siccome i modelli umani, e organici in generale, sono molto limitati rispetto alla manipolazione, quelli “in silicio”, permettono di capire meglio la nascita, lo sviluppo e il decadimento senile del linguaggio.